giovedì 28 giugno 2012

Infortuni sul lavoro

Un avvocato svolge una professione ad alto rischio: è civilmente responsabile verso i suoi clienti delle consulenze che offre, dei contenziosi che segue. In altre parole, se gli avvocati fanno una cappellata dovrebbero risarcire i clienti del danno (economico) arrecato.


Il condizionale è ovviamente d’obbligo: essendo avvocati (e potendo quindi usufruire di tutela pressoché gratuita) il cliente, come minimo, deve provare in giudizio tanto la cappellata quanto il danno. E la cosa può non essere agevolissima.

In compenso, quello di avvocato non dovrebbe essere (almeno sulla carta) un mestiere fisicamente logorante.

Non dovrebbe esistere una casistica di infortuni sul lavoro.

In genere.

Un paio di settimane fa, No Brain - per un giorno - si trasformava da criceto macina-carte (dicesi di legale lasciato a marcire dietro la scrivania per gran parte della giornata) ad avvocato vero e proprio: era stata incaricata di andare in udienza.

Ora, le nostre vite da criceti in studio grandicello sono talmente eccitanti, roboanti e piene di allegre novità che riuscire ad andare una mezza giornata in udienza è l’equivalente di vincere un giro sulle montagne russe per un bambino di sei anni.

Ovvero, la canonica ora d’aria per un carcerato.

Non solo!L’udienza era alle ore 10.30 antimeridiane, il che avrebbe significato (nell’ordine) 1) sveglia con calma; 2) lauta colazione; 3) giro d’auto fischiettando con l’autoradio accesa; e, soprattutto, 4) giro di shopping post-udienza.

Bene, disgraziatamente - il giorno dell’udienza - No Brain NON aveva sentito la sveglia. S’era buttata giù dal letto come un salmone si tuffa nella corrente di un fiume. S’era trascinata verso il bagno, lavata e vestita nel tempo record di 8 minuti e 55 secondi. S’era fiondata in auto reggendo ancora fra le labbra lo spazzolino da denti. Aveva gettato lo spazzolino dal finestrino alla prima curva utile. Aveva avuto modo di bestemmiare*più forte dello speaker di radio KissKiss Network. Aveva maledetto con tutto il cuore (e a pieni polmoni) l’invivibile metropoli nel cui traffico era rimasta (ovviamente) imbottigliata. Aveva vagato 30 minuti buoni in preda alla disperazione più nera alla ricerca di un posto dove parcheggiare il suo bolide “vintage” immatricolato dell’Annus Domini 2000 (D.C.). Dopo aver finalmente trovato un posto “altamente creativo” in cui stipare la macchina, s’era diretta - nuotando nell’asfalto reso molle ed infuocato dal caldo - verso la torretta per pagare il parcheggio a pagamento. Era stata derisa da n. 2 passanti perché cercava di pagare 4 euro con la carta di credito (ovviamente senza ottenere risultato). Alla fine era riuscita (dopo aver ravanato 10 minuti nella borsa e aver trovato trionfante e commossa 20 cent abbandonati nel 2008) a ritirare un biglietto che le consentiva di lasciare la macchina parcheggiata per ben 20 minuti. Si dirigeva, biglietto del parcheggio munita, di nuovo verso la suddetta macchina vintage.


Ah, casomai non l’aveste capito, l’ora d’aria de qua veniva fruita da No Brain nella prima, vera, afosissima giornata estiva offerta da questo torrido giugno 2012. 40 gradi all’ombra. E la macchina vintage di cui vi parlo è nera e con l’aria condizionata rotta.

Stiamo parlando di un tentativo di suicidio, insomma.

Come dicevo, alle ore 9.44 No Brain otteneva il biglietto del parcheggio.

Alle ore 9.46, mentre avanzava sotto la canicola verso la macchina, No Brain sentiva le gambe venirle meno e così - come un sacco di patate - crollava a peso morto sull’asfalto. Rectius: a peso morto sulle sue ginocchia.

Come Andre Agassi dopo un Ace. Come Maradona dopo un goal di rigore.

Solo che loro si buttavano di ginocchia sull’erba. No Brain collassava sull’asfalto rovente metropolitano. E dallo stesso asfalto rovente veniva marchiata a fuoco come una Vaccina del Far West.

Assisteva alla scena un’arzilla signora 80enne che - preoccupata - aiutava a rimettersi in piedi la povera No Brain, che la rassicurava che era tutto a posto, andava tutto bene, no, signora, davvero niente di rotto…solo un po’ di paura.

Mentre veniva tranquillizzava, la signora guardava dubbiosa le ginocchia della malcapitata. No Brain seguì lo sguardo dubbioso dell’interlocutrice e notò che le ginocchia erano completamente sanguinanti. Peggio. Il sangue s’era attaccato al leggero e chiaro vestitino estivo coprendolo di macchie. Macchie di una certa dimensione, per giunta.

Ciò nonostante, la malcapitata si affrettò zoppicante verso il tribunale. Entrò in aula, giusto in tempo per sentir chiamare la sua causa.

Stringendo i denti, occupò la sua posizione davanti al giudice e si alzò in piedi quando fu il punto di parlare.

Con la testa alta. Lo sguardo fiero. Come un soldato al fronte. Davanti al suo plotone di esecuzione.

E il giudice, evidentemente turbato, sostenendo lo sguardo fiero, prima che No Brain potesse proferir verbo, aprì bocca e disse “…ma no, avvocato, mi faccia la cortesia, lei stia seduta eh?”.

Fu così che No Brain diete un’occhiata alla sua immagine riflessa nella porta a vetri dell’aula di tribunale: con le ginocchia completamente rosse e tumefatte, il vestito così macchiato, pareva un’immaginetta votiva raffigurante Cristo in croce.

Nella migliore delle ipotesi, una povera vittima di violenza domestica.

Chissà però…magari almeno in questa maniera i giudici turbati avrebbero potuto darle ragione?

A testimonianza di tutto quanto sopra, allego alla presente immagine raffigurante le ginocchia sfigurate (post-udienza e post-provvidenziale ripulitura in locale pubblico adibito a ristoro - BAR).




* si osserva che il verbo “bestemmiare” viene adoperato in questo contesto con accezione tipica del sud Italia ovvero indicando l’utilizzo di turpiloquio, volgarmente (nel senso di uso comune, in quanto tipico del “vulgus”, volgo) qualificato come “uso di parolacce”. Non indica l’attività di chi - munendosi preventivamente di calendario gregoriano - inveisce contro ciascun singolo santo cui è dedicato ciascun  giorno nei 365 giorni che compongono l’anno solare.